Russia-Europa, la guerra dei conti congelati

La guerra finanziaria tra Russia e Occidente ruota attorno a 300 miliardi di riserve congelate: perché non possono essere confiscate, le ritorsioni di Mosca e i rischi per le imprese italiane.
Bandiere Unione Europea e Russia intrecciate, simbolo della guerra finanziaria

Oltre i titoli ad effetto: la guerra finanziaria Russia-Occidente spiegata senza semplificazioni. Cosa sono davvero i 300 miliardi congelati, perché non possono essere confiscati e quali rischi corrono le imprese italiane ancora in Russia

Negli ultimi tre anni, nelle cronache economiche sulla Russia, si è diffusa un’abitudine pericolosa: mescolare dati reali, ipotesi politiche e scenari futuribili senza distinguere chiaramente tra ciò che è già accaduto, ciò che potrebbe accadere e ciò che resta pura propaganda.

Un esempio è l’articolo con cui ha aperto oggi un importante quotidiano, titolando sulla “nuova guerra finanziaria” e su “150 miliardi di dollari nelle mani di Putin”: un claim sicuramente ad effetto, ma dalle basi piuttosto traballanti.

Vorrei quindi rimettere ordine in questa narrazione e farlo con un approccio diverso: dati verificati, fonti trasparenti, distinzioni nette. Dove entreranno valutazioni soggettive, saranno indicate come tali.


Le riserve congelate: anatomia di un blocco senza precedenti

Secondo i dati BCE (marzo 2024) e del Tesoro USA, le riserve russe immobilizzate ammontano a circa 300 miliardi di dollari, così distribuite:

  • ~210 miliardi custoditi da Euroclear in Belgio
  • ~40 miliardi negli Stati Uniti
  • ~30 miliardi nel Regno Unito
  • ~20 miliardi tra Giappone e altri paesi

Non si tratta dei soldi di oligarchi o delle multinazionali, ma delle riserve ufficiali della Banca centrale russa, accumulate negli anni con i surplus energetici.

Perché non si possono semplicemente confiscare?

Perché vige il principio di immunità sovrana: toccare direttamente fondi statali significherebbe violare il diritto internazionale e creare un precedente che minerebbe la fiducia globale nei mercati europei.

“Normalizzare l’esproprio di riserve sovrane minerebbe irreversibilmente la fiducia nel sistema finanziario occidentale”, avverte la giurista Anthea Roberts – (AJIL Unbound, 2022).

Ecco perché Bruxelles e Washington discutono soluzioni ibride: usare solo gli interessi maturati (3-5 miliardi l’anno), emettere prestiti collateralizzati o, in ultima ratio, legare un’espropriazione a future condanne internazionali per danni di guerra.


La risposta di Mosca: conti bloccati e nazionalizzazioni

Per ritorsione, il Cremlino ha istituito due strumenti speculari:

  • Conti “C” (dal marzo 2022): vi finiscono dividendi e cedole dovuti a investitori di paesi “non amichevoli”. Stimati in 24 miliardi di dollari.
  • Conti “S” (dal 2023): bloccano gli utili delle filiali di multinazionali occidentali. Al giugno 2024 contenevano circa 28 miliardi di dollari in rubli non convertibili.

In parallelo, Mosca ha già confiscato o trasferito ad oligarchi fedeli oltre 90 società straniere: da Danone a Carlsberg, da ExxonMobil all’italiana Ariston Thermo. Valore stimato: fra i 46 e i 52 miliardi di dollari.

Una bozza di decreto presidenziale mai firmata autorizzerebbe nazionalizzazioni di massa. Bluff o minaccia reale? Gli analisti sono divisi.

“È una deterrenza credibile: il Cremlino ha già dimostrato di saper espropriare senza pagarne il prezzo politico interno”, sostiene Alexandra Prokopenko, ex-Banca Centrale russa.


Le imprese italiane: il paradosso dell’Aperol Spritz

Prima della guerra erano 63 i gruppi italiani presenti in Russia. Oggi quasi 50 sono ancora lì. E i numeri sorprendono:

  • Campari ha visto i ricavi raddoppiare, trainati dalla moda moscovita dell’Aperol Spritz: 121 milioni nel 2023 (+95% sul 2021).
  • Pirelli fattura oltre 300 milioni, ma in calo reale.
  • Ferrero e Barilla restano attive grazie all’esenzione degli alimentari.
  • Chiesi e Angelini hanno aumentato volumi e presenza nel farmaceutico.

In aggregato: +37% di fatturato rispetto al pre-guerra, 480 milioni di utili netti e oltre 110 milioni di imposte versate a Mosca.

Ma la realtà è dura: tutti questi profitti restano imprigionati nei conti “S”.

“Abbiamo investito decenni e centinaia di milioni. Uscire ora significa svendere al 10-15% del valore reale”, confessa off-the-record il CFO di un gruppo italiano.

Un classico caso di sunk cost fallacy: restare in un mercato ostile solo perché si è già investito troppo.


Perché l’economia russa non è (ancora) collassata

Nel 2022 si prevedeva un crollo dell’8,5%. Invece nel 2023 il PIL russo è cresciuto del +3,6%. Come mai?

  • Petrolio e gas hanno trovato nuovi sbocchi (India, Cina, Turchia), seppure a prezzi scontati.
  • La spesa militare (110 miliardi $ nel 2023) ha creato piena occupazione e drogato i consumi interni.
  • Il Cremlino ha centralizzato ogni leva economica, imponendo un dirigismo di guerra.

Ma i costi nascosti crescono: inflazione sopra il 7%, fuga di capitale umano (fino a un milione di qualificati emigrati), dipendenza tecnologica dalla Cina, declino graduale dell’industria petrolifera per mancanza di know-how occidentale. Insomma: resistenza oggi, fragilità domani.


La guerra finanziaria e 3 scenari per l’Europa

  1. Linea dura – confisca diretta dei fondi: alto impatto politico, ma rischio immediato di nazionalizzazioni di massa (70-90 miliardi di perdite per imprese UE).
  2. Mobilitazione graduale – uso solo di proventi e prestiti collateralizzati: scenario più probabile, con ritorsioni selettive da Mosca.
  3. Status quo – congelamento reciproco sine die: nessuno vince, ma tutti perdono valore nel tempo.

Ma la vera trincea è la credibilità

Dietro i titoli roboanti, i fatti sono chiari:

  • I 300 miliardi congelati non sono di Putin, ma della Banca centrale russa.
  • Gli utili delle multinazionali in Russia non sono nelle casse del Cremlino, ma bloccati nei conti “S”.
  • Le nazionalizzazioni non sono (ancora) di massa, ma colpiscono a ondate selettive.

La vera partita non è tra cifre sparate a effetto, ma tra due principi fondamentali: la difesa dell’Ucraina e la credibilità del sistema finanziario internazionale.

Se l’Europa sbaglia mossa, rischia non solo le ritorsioni russe, ma soprattutto di incrinare la fiducia che tiene insieme il suo stesso modello economico.

Gli errori in questa partita non si misurano in trimestri, ma in generazioni.

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